Grazie deputata. Così la Presidente della Camera Laura Boldrini, pochi giorni fa, ha risposto al leghista Paolo Grimoldi che ripetutamente si era rivolto a lei con “signor Presidente”, ponendo fortemente l’accento sul quel “signor”. Il deputato leghista ha, così, mostrato palesemente quello che pensava della battaglia – sì perché in fondo di questo si tratta – condotta in proposito dalla Presidente che a suo tempo aveva indirizzato una lettera ai componenti della Camera sollecitando l’uso corretto di forme di linguaggio di genere. Boldrini chiedeva «l’adeguamento del linguaggio parlamentare al ruolo istituzionale, sociale e professionale assunto dalle donne e al pieno rispetto delle identità di genere».
Ovviamente, molti dei nostri rappresentanti, sempre in molte altre faccende affaccendate, hanno etichettato la questione come “banale”. Senza rendersi conto di come non solo sia opportuno, ma anche formalmente e grammaticalmente corretto usare il genere giusto. Purtroppo però questa battaglia, perseguita da molte associazioni, tra cui anche le giornaliste di Gi.U.Li.A. con il manuale “Donne, grammatica e media”, viene ancora considerata una questione di mera forma, una sorta di capriccio di poche donne troppo scrupolose. Una battaglia che vede disinteressati e detrattori uniti spesso nella comune disinformazione sull’argomento.
Come chi, per tagliar corto, ad esempio, su qualche social è anche capace di scrivere “ma allora l’oculista maschio dovremmo chiamarlo oculisto…” oppure come chi – Luciana Littizzetto, per esempio – si dichiara stupita che “simili questioni possano scomodare anche l’Accademia della Crusca”. Ma se invece si ripartisse solo dal corretto uso della lingua? Se i ricordi scolastici non mi ingannano, proprio le parole che finiscono in “ente”, da sempre vengono usate per tutte e due i generi ed è l’articolo a “fare la differenza”.
Sì perché, di fatto, la “Grammatica la fa… la differenza”, proprio come recita un albo per la scuola appena pubblicato dalla casa editrice Mammeonline (AA. VV., Ill. di Gabriella Carofiglio). Quarantotto pagine di racconti, filastrocche e fiabe che in maniera spontanea mostrano a bambini e bambine la naturalezza dell’uso del linguaggio di genere. “Che le donne, nei secoli, siano state poco considerate è un dato di fatto inconfutabile, ma che anche la nostra lingua le abbia ignorate e continui a ignorarle rifiutando il genere femminile, non è più accettabile”, si legge nella presentazione. Per ripristinare correttezza lessicale e rispetto delle differenze tra i sessi è bene ripartire dall’osservanza della grammatica e dalla scelta delle parole ed è necessario cominciare a parlarne a chi con la lingua ha il primo approccio: i bambini e le bambine.
Il libro si propone, infatti, di suscitare la curiosità verso argomenti apparentemente immutabili, facendo comprendere che gli strumenti per cambiare il nostro modo di parlare e pensare, rispetto al genere femminile, la lingua li possiede già, basta solo cominciare a usarli correttamente. In questo senso, credo che oltre ai genitori, sia giusto chiamare all’appello le maestre e i maestri, le insegnanti e gli insegnanti, le professoresse e i professori, chiedendo loro di non correggere la bambina che sogna di fare “la medica” anziché “il medico” e magari di augurare alla ragazza che voglia fare la calciatrice, di diventare una brava “libera”.
